16 agosto 2011

“Ma è vero che vai in monastero?”
“Intanto sono venuto a Monaco!”
Con questa meravigliosa battuta
salutavo la non tanto piccola folla in attesa
all’uscita dello Sporting di Montecarlo.
Ed era solo l’ultima
di un’inarrestabile infilata di facezie
che vi risparmio per carità di patria.
Anche perché eravamo all’estero.
In terra straniera.
E io ero particolarmente in vena.
Per noi tossici del cazzeggio
sopraggiungono fasi acute e così deliranti
che non possono essere descritte
in pubblico e in fascia protetta.
Di questi tempi
c’è poco da ridere
ma per ridere ci vuole assai poco.
Qui invece c’è assai tanto di tutto.
Lo vedo, affacciato dal salotto ovale,
soffitto di cielo affrescato,
lampadario Murano e coppe d’argento,
stucchi biancoantico, tende oro e porpora,
poltroncine Impero, divani damasco…
della mia cosiddetta stanza d’albergo.
O meglio Suite.
Che per un compositore è d’obbligo.
Qui può scrivere musica da camera (?).
Riecco la crisi. L’amore per le battute.
Che son quelle trascritte su pentagramma…
Oddìo, così non si finisce mai più.
Come non finiscono mai di passare
automobili che hanno più cilindri
di una cappelleria per cerimonie.
Ragazze con gambe più lunghe
di un trampoliere tornito
e abitini più corti dei bavaglini per bimbi.
Panfili più alti dei palazzi delle periferie.
E anche un po’ più lussuosi.
Qui è tutto più. Anzi plus.
Qui è tutto oro quello che cola.
Una ricchezza esibita dovunque
e in tale maniera che pare irreale.
Penso a mio padre che mangiava la carne
due volte all’anno, quand’era bambino.
Che, per la Prima Comunione
suo padre gli fece le scarpe
‘in crescita’
nel senso che prima tagliò e poi le cucì
un po’ approssimative
e in modo che gli andassero bene
anche quando fosse diventato più grande.
Andando verso l’altare
con quelle due scialuppe ai piedi
sciabattava così forte
che la chiesa tremò tutta quanta
e, inginocchiandosi a prendere l’ostia,
ci si sedette sopra
per quanto gli avanzavano dietro.
Quello fu anche uno dei due giorni
di quell’anno della sua vita
in cui mangiò la carne.
Anzi ne rubò di nascosto
già un pezzetto dalla pentola fumante
che ancora non era cotta del tutto.
Se ne accorsero subito
perché gli colava un poco di sugo
dalla bocca serrata e soddisfatta.
Alla sberla che gli arrivò
chiese scusa e frignando giurò
che però fino all’ostia
era stato a digiuno.
Anch’io chiedo scusa
se ieri ho lasciato qualcuno a digiuno.
Se non ho fatto tutte le foto
firmato tutti gli autografi
baciato tutte le guance
o dato un saluto a tutti.
Io provo a mettercela tutta
e tutto me stesso in tutto e per tutto
ma non si riesce mai a far tutto tutto
e forse nemmeno abbastanza.
Grazie comunque di ‘tutto’.
Ieri al concerto siamo stati grandi.
Più che altro siete stati grandi voi.
Perché questo è, in ogni caso, il nostro mestiere.
Spacciatori di musica,
diversa realtà, emozioni, energia.
Il nostro dovere è vendere roba
sempre buona e di prima qualità.
E per questo ogni volta ci diamo da fare
Ma ieri voialtri l’avete fatta bella davvero.
Avete fatto ‘la difference’.
Che partecipazione!
Quelli del posto dicevano
che così non l’avevano visto mai.
“C’est pas possible!”
continuavano a esclamare.
Non è possibile.
E dopo poco erano tutti in piedi
e qualcuno per aria
a cantare, ballare, urlare e saltare.
Ho pure baciato con una certa passione
una bella signora dai bianchi capelli.
Ce n’erano parecchie giovani
e giovani parecchio…
Ma già se ne sparano tante.
Almeno così non diranno
che sono un pedofilo.
Alla fine – diciotto canzoni tirate
in cento minuti senza respiro.
Senza bere e senza ‘sputare’.
Un’impresa. Senza lacrime e sangue.
Ma tanto sudore.
Ero fradicio e non solo io.
In camerino mi sono immolato
dentro una doccia lunga e gelata.
E continuavo a cantare…
Niente di che. Lo capisco.
Sotto la doccia cantano tutti.
Perciò per distinguermi un po’,
più tardi, allungando due passi
nello strano paese un po’ finto
di campanelli e vedove allegre,
mi son messo a fischiare.
Come faceva mio padre.
Stamattina, girando lo sguardo
dal porto e le strade deluxe,
mi sono guardato colline e montagne
con gli occhi velati di nostalgia
e di un mondo più vero.
Genuino come quella campagna umbra
verdeoliva e giallofrumento
di qualche anno fa.
Povera e parsimoniosa. Umile e rispettosa.
Mio padre aveva l’abitudine fissa
di raccoglier le briciole di pane
rimaste sulla tovaglia.
“Per farne una – diceva –
occorrono almeno tre chicchi di grano”.
Quindi le cliccava, una per una,
con il polpastrello dell’indice
e se le metteva in bocca.
Io faccio spesso la stessa cosa.
Non mi farò frate.
Ma un po’ francescano lo sono.

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