27 giugno 2011

Solo e davanti un intero mattino
senza buchi di suono.
Ero sdraiato sulla poltrona all’aperto
come appoggiato su un lato
della mia finestra sul mondo.
C’era meno elettricità nel cielo.
Meno smania nel mare.
Meno umidità nell’aria.
E meno adrenalina dentro.
Il gabbiano di nome Lampo
– ma lui non lo sa –
restava immobile
sul tetto bianco a cupola
del dammuso accanto
a fissare l’orizzonte.
Io pure guardavo
seduto a gambe conserte
senza pensieri
senza più urgenze
senza cose da fare.
‘Sùsiti’ era appena finito.
Se fa bene spalmarsi sul corpo
quella bella pigrizia del giusto,
di chi è a posto col proprio dovere,
quella tiepida aromatica colla
che rimette insieme i tuoi pezzi,
non si può invece far star ferma la testa e svuotarla di ogni congegno.
Mentre lo spazio che serve
è tutto compreso
tra le dita abbandonate
delle mani e dei piedi,
la mente non riesce a stoppare
la conta del tempo.
Ci si sente in difetto
a non avere un’idea,
un ricordo, una gioia, un dolore.
Sembra quasi uno spreco.
L’ozio è una scelta possibile.
Si perdona, si ammira.
Il riposo, al contrario, è una colpa.
Ogni istante è una goccia di vita
di un rubinetto che perde.
Cercando di chiuderlo,
di stringerlo forte,
invano inseguivo una preda qualsiasi
su cui puntare il mirino delle mie riflessioni.
Un safari confuso
nell’immensa savana degli occhi socchiusi.
Poi, tutto a un tratto, un’ombra che fugge.
Indistinta, sfumata.
Una fitta di malinconia senza nome.
Un’ansia con il volto celato.
Un allarme attufato.
‘Susiti!’
Ristorarsi di gloria
è una sosta di qualche momento.
Un breve intervallo.
Un colpo di pettine.
“Mai cullarsi sugli allori”
diceva mio padre.
Mai crogiolarsi alle pallide luci artificiali nella casa-museo delle benemerenze.
Mai spolverare troppo i trofei.
Lucidar le medaglie.
Ripassare in rassegna le onorificenze.
Il vanaglorioso va a caccia di premi.
Gli preme- eccome- esser premiato.
La settimana trascorsa
in tre giorni
ne ho presi ben due.
Quando li si riceve
non si sa mai che dire.
Si ascolta compunti la motivazione,
si osserva curiosi l’oggetto,
si legge come sorpresi
il proprio nome e cognome sulla targhetta e infine, chiedendo silenzio al clap clap delle mani, si esclama il solito timido enfatico pudibondo sensazionale grazie.
Condito da un discorsetto di circostanza.
Q.B. Quanto basta.
Tra la consegna e il ritiro
dell’ultimo avuto
mi è scappato detto:
“al posto di fare un encomio
e di dare merito a chi fa qualcosa
per gli altri,
non sarebbe più giusto punire
chi non lo fa,
chi si tira indietro
chi omette un soccorso?”
Siamo un po’ incoerenti.
Si partecipa spesso a iniziative di beneficenza, si fa a gara di solidarietà, si compilano vaglia e s’inviano sms e poi non si pagano tasse e tributi.
Cioè il primo civico modo di partecipare al bene comune.
Il vicendevole patto
per darsi una mano
nel male, in disgrazia, nella minore fortuna.
Fondamento di una società.
‘Campioni di generosità gli italiani’
decretava compiaciuto e compiacente
il presentatore tv
alla fine di una raccolta di fondi.
Noi: il primo paese d’Europa
e il terzo del mondo
per evasione fiscale.
Come minimo un po’ stravaganti.
Come quelli che s’ammazzano
di esercizi di step in palestra
poi si arrabbiano se salendo a casa
l’ascensore è fuori servizio.
Qualche giorno più tardi
ero steso sul divanetto
di fronte a un’altra finestra
ma su un mondo diverso.
Anche qui c’era un mare.
Però un mare di tetti e di cime di alberi.
E nel cielo gabbiani.
Gabbiani di città
senza un nome.
Pure loro come gli uomini,
girano sconosciuti nella metropoli.
E c’era aria di pioggia.
Stava per giungere.
Lo sentivo.
La sentivo.
Pioggia improvvisa
di un mezzo pomeriggio
in una torrida estate di città.
Annuncio di nuvole incinte
sulla bacheca del cielo.
Odore umidiccio di strofinacci stesi
su una maniglia di stufa.
Dopo poco è arrivata,
macchiando i vetri e il terrazzo.
Uno sfogo. Una liberazione.
Un pianto di gioia.
Acquasanta che bagna la terra e la fronte, che lava i peccati.
Che annaffia i proponimenti.
Disseta il deserto di buone intenzioni.
Piange commossa per tutti quelli
che non lo sanno più fare.
Ho preso la chitarra vecchia
e ho suonato a tempo di pioggia.
Lacrime e note
fanno una musica così bella
che non smetteresti mai.
Qualche altro giorno
ed eccomi nel luogo d’inizio.
Ora è sera.
Alle spalle un finale di sole
e davanti una striscia di rosa
nel celeste uniforme.
Sono solo. Appoggiato alla stessa finestra sul mondo.
Lampo il gabbiano – ma lui non lo sa –
fissa l’orizzonte lontano
dal dammuso qui a fianco.

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