20 aprile 2011

Ma che cielo c’è questa notte?!
Un vaso gigante di vetro lavanda
tramato di glicine e tortora
opalescente stupore dell’universo.
Nessun suono
vibrato nell’aria.
Solo indistinto rumore di fondo.
Respiro piano a bocca aperta
ed è l’unico vento che sento.
Fiuto il tempo che passa
senza contarlo.
Mi riposo i perché.
Anche gli alberi
si prendono un po’ di quiete
stanno buoni
ben pettinati
prima di mettersi a nanna.
Io però non andrei mai a dormire.
Come se mi perdessi qualcosa.
Quasi che succedesse di più
quando è notte
che non nella lunga durata del giorno.
E mi gratto indolente la schiena
puntando lo sguardo sul gomito.
Come un mirino
spostandolo a destra e a sinistra
giù in basso e poi su.
Un collega d’insonnia, un gabbiano
plana immobile e vago
sopra un mare di tetti.
Forse ha fatto più tardi
forse è l’ultima corsa
come quella di un taxi
che svanisce in un soffio al contrario.
Non c’è buio stanotte.
Neanche un’ombra o una tenebra
a increspare la pelle
a inventare paure.
Il soffitto si è aperto
in un largo astronomico
come quello del cinematografo
di tanti anni fa
tra il primo e il secondo tempo.
Tutto appare più chiaro del nero.
Moonligth Serenade.
Si lo so che è la luna
a far questo
ma io resto girato così
e non la guardo.
Provo un pallido caldo sul collo
e mi piace tenerla alle spalle
come un seguipersona
puntato sul mondo.
Stamattina
mi sono alzato
con un pensiero fisso:
spegnere con l’interruttore
gli apparecchi di casa,
quelli lasciati
per ore, giorni, mesi
con la lucetta rossa
dello stand by.
Che spreco
dicevo a denti serrati.
Se tutti smorzassimo almeno
queste spie del benessere
chissà che risparmio…
Rispondevo a me stesso:
forse non tanto ciascuno,
però tutti insieme…
Abbiamo più telecomandi che amici.
Allora è vero
che i telecomandi si vedono
nel momento del bisogno!
Mi ricordo
come se fosse ora
quando il primo di questi arnesi
fece il suo trionfale ingresso
in casa dei miei
ch’era pure la mia.
Un affare argentato
grande come una scatola di biscotti
legato al televisore
con un cavo ombelicale
arrotolato su sé
così che non si riuscì mai a domarlo
e restò sempre a coda di porco.
Al centro un tasto
uno solo
con su scritto
Acceso (di sopra)
Spento (di sotto).
Se arrivava qualcuno
un parente un amico
mio padre si sedeva in poltrona
afferrava misterioso l’oggetto
misterioso anche lui
e via: accendi e spegni
più volte
davanti allo sguardo sorpreso e ammirato degli ospiti.
Così quella diavoleria tecnologica
prese il potere su di noi
e il sopravvento
sugli altri congegni
precedenti al suo avvento.
Finirono nel dimenticatoio delle attenzioni il carrello ultramoderno lo stabilizzatore di corrente la lampada verde per non farsi male alla vista una piccola antenna aggiunta che nessuno seppe mai se servisse davvero.
Il telekommander aveva vinto.
La prima vittima fu il maschio capofamiglia.
Sentivo che era
il ‘coso venuto dal negozio’
a tenere in pugno papà.
E non viceversa.
In una lingua algoritmica
di onde quadrate
incomprensibili
non udibili dall’orecchio umano,
il telecomando diceva ghignando:
que-sto-te-lo-co-man-do-io.
A mia madre
quando fu abilitata all’uso:
te-la-co-man-do-pu-re-le-i.
A tutti e tre noi: io-li-te-li-co-man-do.
Da allora cominciò
e non è mai cessata
L’Invasione dei Telecomandi.
E la nuova costellazione di lucine
rosse verdi gialle azzurrine
per casa.
Ma stanotte è una notte speciale.
C’è un che di impalpabile
trasparente magia
come se avessi potuto
con un solo pulsante
spegnere tutto
e lasciarmi accesi soltanto gli occhi.
La mia unica luce è la luna.
Mi giro e mi allatta lo sguardo.
Una luna così
mica càpita spesso.
Dentro il cerchio ci passano baci,
abbracci infiniti d’innamorati,
cime brune e tempestose di abeti,
altalene di ghirlande di fiori,
carrozze volanti.
Com’è tonda, perfetta.
Un disco lanciato
per battere il record galattico,
per il sogno più lungo mai fatto.
Per un attimo
smetto di respirare.
E mi tengo
tutto ciò che si può
dentro il vuoto di me.
Cosa voglio di più?
Ho la luna piena
e l’anima ubriaca.

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