Appunti del viaggiatore

16 maggio (?)

Non voleva che partissi. La mattina c’era un post-it giallo sul monitor. Una sola parola: “Perché?”.

Ho pensato spesso a quel punto interrogativo. Forse perché sapevo che il suo saluto sarebbe rimasto racchiuso per sempre nel tratto irregolare di quella esse rovesciata, o forse perché, malgrado l’insistenza con la quale quella domanda bussava alle mie spalle, non ero ancora riuscito a trovare una risposta che mi convincesse.

Mi pesava non averle parlato. Avevo provato a telefonare, ma la confusione che abitava la mia testa non era di quelle che si possono affidare al microchip di una segreteria. Ne avevamo parlato anche l’ultima sera. Non che avesse cercato di fermarmi, ma non le avevo risposto quando aveva buttato lì quel “Punto di non ritorno, vero?”. Altra esse rovesciata. Altro silenzio. Si era alzata. Era scivolata via da rayon e seta con uno di quei gesti che me l’avevano fatta amare. Aveva sciolto i capelli e si era infilata nella doccia. Avevo spento la luce ed ero rimasto a fissare le forme che i miei occhi disegnavano nel buco nero del soffitto. L’ultima cosa che avevo sentito era la miscela di magnolia e sandalo del docciaschiuma confondersi all’odore della sua pelle.

Non c’è bisogno di aspettare
la fine del millennio. La prossima
non sarà una nuova età, ma solo
un’altra età. Il tempo scivola via
in un’eterna vigilia e ci coglie
sulla porta, ma non si sa se stiamo
entrando o uscendo, sospesi tra
ciò che non-siamo-ancora
e ciò che non-siamo-più.

6 giugno (?)

Non so cosa sia stato. Un pensiero inatteso, un’immagine fuori quadro, un ricordo di quelli che fanno inciampare. O, forse, uno squarcio di cielo che fa vedere le cose sotto un’altra luce o una parola che, anche se non riesci a metterla a fuoco, penetra le tue difese immunitarie, si insinua sotto pelle e non ti abbandona più. Non so. Magari soltanto un’immagine, un tratto, un passaggio d’ali.

Ha attraversato l’orizzonte rettangolare della finestra con l’andamento incerto delle cose portate dal vento e mi ha fatto pensare. Quante volte non siamo che aghi di pino tra le braccia del vento. Ondeggiava come una parola in libertà, con la leggerezza di momenti che da tempo non possiedo più. Carezza di ramo, filamenti di nuvole, palloncino. Davvero, non saprei. È passato, con l’effetto di una ventata su un viale di foglie autunnali, lasciandomi inginocchiato a raccogliere i pensieri, con l’orecchio al rumore che fanno quando litigano nella stanza vuota della coscienza.

Notte agrodolce, in bilico tra l’umore di emozioni sconosciute ed una folla di piccole ferite che graffiano la gola. Un equilibrio instabile, ma che sembrava non spezzarsi mai. Da una parte, la spinta -ingovernabile ma ineludibile- di quell’urgenza nuova, dall’altra il richiamo dei mille punti di ancoraggio di ogni esistenza: luoghi, persone e cose a cui pensiamo quando pensiamo alla vita (una parola così semplice eppure così difficile da pronunciare) ed altre mille piccole cose che le lenti deformanti di abitudini e passioni mostrano grandi.

Ho passato quel che restava della notte rannicchiato, la testa tra le ginocchia, gli occhi a raschiare il fondo buio delle palpebre, per vedere se riuscivo ad avere una coscienza più netta di quello squarcio di cielo, di quel passaggio d’ali che, per la prima volta, mi aveva fatto desiderare d’essere vento.

Questo bisogno di sogno,
quest’utopia necessaria,
non è il desiderio di rifugiarsi
dove la realtà non arriva,
ma la consapevolezza che solo
gli occhi che sanno immaginare
quello che sarà, insegnano a
camminare e solo nella fantasia
si trovano risposte.

21 giugno (?)

La verità è che avevo esaurito l’hard disk. Fine. Neanche un minuscolo spazio dove appuntare una sensazione, un viso, una frase, o anche soltanto una parola. Niente. Non un settore in grado di ospitare un solo bit. Ogni volta che volevo immettere un nuovo dato, dovevo espellerne un altro. E la cosa più grave era che non sceglievo io cosa gettare nel trash. Il system faceva tutto da solo. Senza priorità. Naturalmente, senza emozioni né passioni, ma -ed era questa la cosa alla quale non riuscivo ad abituarmi- anche senza logica. Procedura rigorosamente random. Un incubo. Come fai ad essere sicuro che la cosa che vorresti raccogliere e portare con te sia davvero più importante dell’altra (e quale?) che il system cestinerà senza che tu possa far nulla per impedirlo?

L’effetto è semplice: paralisi. Non ti azzardi più a fissare niente, perché potrebbe voler dire perdere per sempre qualcosa a cui tieni. Magari una cosa ancora più importante. E la coscienza resta lì, immobile. Incapace di prendere una decisione. Risultato: non puoi avere un futuro, perché significherebbe perdere il passato (e non è possibile perdere il passato senza rinunciare alla propria identità), ma se decidi di rinunciare alla tua identità e andare incontro al futuro, chi sarà -poi- la persona che vivrà quel futuro al tuo posto?

Un loop che porta dritto allo stallo.

Ci pensavo ogni sera, mentre raccontavi la tua giornata e sentivo le tue parole attraversarmi senza lasciare traccia. Ti guardavo. Ma l’onda del mio sguardo si infrangeva in un punto imprecisato della parete alle tue spalle. La radiosveglia, le foto, le puntine colorate che fissavano i tuoi messaggi al pannello di sughero, un riflesso, un’imperfezione dell’intonaco. Faticavo a consegnare ai miei occhi un’espressione attenta ed ero terrorizzato al pensiero che ti accorgessi che non c’ero. Nessuna alternativa. Dovevo recuperare spazio. Deframmentare l’hard disk, compattare i dati o trovare il modo per inserirmi nel system e scegliere io cosa cestinare.
Mi rendevo conto che non era una questione di prospettiva, ma di distanza. Finché schiacci il naso sul foglio, non riesci a leggere, ma se alzi la testa e ti allontani, piano piano cominci a mettere a fuoco e…
Una questione di distanza.

Conosciamo un solo modo di viaggiare:
in orizzontale. Incapaci di risalire
la verticale che unisce il punto
in cui i pensieri nascono a quello
in cui possono arrivare, ci muoviamo
solo tra cose che conosciamo già,
vittime di questa evidenza
che acceca e nasconde la verità.

4 luglio (?)

L’acqua scende piano, attraversa i minuscoli frammenti di queste foglie rugginose ed il fondo della tazza si colora di un tono ambrato, a metà tra caramello e miele. E così fa il tempo: ci attraversa e ci colora. Solo che all’improvviso accelera. Così. Senza preavviso. L’indice scivola su “injection” e i motori esplodono. Un attimo. Identico ai milioni di altri che hai lasciato scivolare via, come acqua su una cerata, quasi senza farci caso. Ma adesso c’è un confine netto tra prima e dopo, e prima e dopo resteranno per sempre uno di spalle all’altro.
Solo un istante prima, lui -il tempo- era quello di sempre. Con il suo passo -non lento, ma almeno regolare- e quella feritoia di sguardo puntata dritta sul cuore. Un cameriere sempre sul punto di chiedere: “Il conto?”.
Magari un po’ sorpreso del fatto che tu riesca a comportarti come se non esistesse, ma mai distratto. Non come noi, ostaggio delle nostre fantasie, a stordirci di suggestioni, come se bastasse non farci caso per toglierselo di torno. Non funziona così.
La forza del tempo è che ha il tempo dalla sua. E lo sa.
co, allora, che il dito scivola su quel pulsante e ti senti soffocare, schiacciato allo schienale e sparato nel vuoto.
La cosa che mi pesava di più era l’umore di periferia che abitava il mio sguardo. Periferia di un mondo dove le cose arrivano, ma sempre in ritardo. Non ci stavo all’idea di una vita mio malgrado. Di scambi che scattano nel momento sbagliato e ti dirottano tra le braccia della vita di qualcun altro. Ad abitare la sua casa, fare il suo lavoro, amare la sua donna, frequentare i suoi amici. Una vita che non sarebbe mai stata tua se le cose avessero funzionato a dovere.
Volevo bucarlo, il tempo. Attraversarlo e guardarlo negli occhi anche solo per un istante, e non limitarmi ad osservarne i riflessi agitarsi sulle pareti della coscienza. Per smascherarlo ho costruito questo oggetto strano. L’orologio che divide con me questa stanza, tra compagni di viaggio e pensieri clandestini. L’unico che mi permette di misurare l’illusione che non sia più la musica ad andare a tempo, ma il tempo che va a musica.
Avrei voluto dirglielo, ma temevo che non avrebbe capito. Forse perché non sarei mai stato in grado di spiegarglielo così. Anche per questo quella mattina, quando avevo sentito partire la segreteria, avevo riagganciato. Sapevo -o, forse, soltanto speravo- che il radar della sua sensibilità le avrebbe suggerito risposte migliori di quelle che, in quel momento, sarei riuscito a confezionare ed affidare ai toni incerti della mia voce. Ed anche se il mio silenzio di allora pesa, quando guardo il riflesso dei miei occhi affacciati sul fondo ambrato di questa tazza di té, mi rendo conto che è stato meglio così.

Non siamo mondi a parte,
ma parte dello stesso mondo
e questo male d’universo
che ci invade è il segno
di questa appartenenza:
non un dolore, ma un soffio leggero
di serenità che ci attraversa
ogni volta che ci sfioriamo.
Nostalgia di chissà cosa eravamo.

15 luglio (?)

Se guardo fuori, mi sembra di essere immobile. Immobile al centro di un immenso nulla. Spengo le luci, la stanza scompare e restano i miei occhi affacciati su un silenzio senza tempo. Osservo la notte seduto in riva a questo mare nero e muto che trattiene il fiato. Tendo le orecchie, ma non si sente nemmeno il respiro leggero dello sciabordio. Tutto è silenzio. Lascio che questo silenzio si espanda ad occupare tutto lo spazio che può occupare e scopro che avrei voglia di nuotare. Così, adesso. Aprire la finestra, tuffarmi e nuotare. Nuotare a lungo, senza meta. Fino a quando ho fiato, fino a quando le braccia fanno male e le gambe sono così pesanti che non riescono quasi più a muoversi.
Spalle alla costa, tagliare l’acqua e vedere se è vero che non si può raggiungere quell’orizzonte al quale più mi avvicino e più si allontana. E poi voltarmi -prendere fiato- e guardare se le cose rimaste a riva sono ancora lì. Guardarle oscillare con gli occhi a pelo d’acqua e lasciarmi afferrare le caviglie dal desiderio di immergermi e andare a vedere se c’è e com’è il mondo all’altro capo del mondo.
Mi ha sempre affascinato, il mare, perché qualunque cosa ci sia dietro le spalle non conta. Conta solo quello che hai davanti.
Il mare è futuro. Chi può dire su quale spiaggia approderà l’acqua che ti bagna i piedi e che la risacca spinge di nuovo verso il largo? Che colore avranno i prossimi piedi che bagnerà e quale terra si rifletterà negli occhi della ragazza che la raccoglierà tra le mani per rovesciarla sulla fronte e sui capelli a scacciare un’afa di pensieri ingombranti?
Tuffarmi e nuotare. Lasciare che l’acqua porti via questa pelle, i cui pori -otturati da ogni genere di scoria- non mi fanno più respirare.
Guardo fuori. Mi sembra di essere immobile al centro di un immenso nulla. Spengo le luci, la stanza scompare e restano i miei occhi affacciati su questo silenzio senza tempo.

Ci circondiamo di cose,
pensando di possederle,
ma sono loro che possiedono noi.
Ci vivono accanto,
le accudiamo e ci illudiamo
di cambiarle, mentre ci cambiano.
Noi passiamo, loro restano,
senza sapere mai che ce ne siamo andati.

21 luglio (?)

Non avrei mai pensato che un mare aperto mi avrebbe trasmesso questa sensazione di labirinto. Soffoco. È strano, nel vuoto, sentirsi in gabbia. Labirinto senza uscita. Avrei dovuto riflettere sul fatto che è impossibile uscire da un posto che non ha né pareti, né porte, né confini. Un buco nero che va persino al di là del punto nel quale l’occhio del telescopio elettronico è in grado di arrivare. Lasciarsi alle spalle limiti e confini affascina, è vero, ma il fascino stinge in un’ansia senza perimetro nel momento nel quale ti accorgi che, se puoi esplorare tutte le direzioni, nello stesso istante nel quale scegli di percorrere una strada non fai altro che chiudere intorno a te milioni di porte.
È un pensiero del quale non riesco a liberarmi. Se guardo nel retrovisore della coscienza mi accorgo che dietro di me ci sono molte porte chiuse, ma, soprattutto, troppe porte che non ho mai aperto. Non so contare le volte che mi sono trovato davanti ad una porta incapace di decidere se afferrare la maniglia, ruotarla ed entrare. Il più delle volte, ho esitato. Vedevo la mia mano allentare la presa, lasciare la maniglia, ritrarsi. Più del desiderio di sbirciare la vita dall’altra parte, vedere se le impressioni suscitate dalla forma, dal legno, dal nome sulla targhetta trovavano conferma, poteva il timore di sbagliare, l’idea che la realtà potesse essere inferiore al mondo che avevo costruito nell’attesa. L’idea che la persona che avrebbe aperto potesse avere qualcosa di sbagliato nella profondità di campo dello sguardo, nel tono e nel colore della voce, nei gesti, nel modo di camminare, nel taglio dei vestiti.
Troppe volte mi sono fermato sull’uscio di un incontro, incapace di percorrere i pochi passi necessari a colmare la distanza -quasi sempre più breve di quello che sembra- che separa dalle cose.
È strano rendersene conto solo adesso, eppure in questo immenso nulla senza porte, mi mancano le fantasie di quelle attese, i piccoli fremiti di quelle indecisioni, il sapore amaro di quelle rinunce. Fuori dalla porta c’è una ressa di sguardi non ricambiati, domande non fatte, risposte non date, vite sfiorate e mai davvero incrociate. I mille istanti nei quali ci passiamo a fianco -vicini come non siamo mai stati e come non saremo più- rimanendo del tutto inconsapevoli l’uno dell’altro. Vedo la mia mano avvicinarsi alla maniglia. Esitare. Ritrarsi. E sento le voci delle vite che non ho avuto, sillabare il mio nome al di là della porta.

È una stagione strana:
l’imperativo è comunicare,
ma non avvicinarsi: parlarsi da lontano.
Così ci nascondiamo dietro maschere telematiche,
confondendo reale e virtuale,
come mosche che sbattono su un vetro
scambiato per il cielo.

2 agosto (?)

Non so se ho portato tutto quello che avrei voluto. Non credo. Avevi ragione tu: non sono mai stato capace di fare le valigie. La verità è che se cerchiamo di portarci dietro tutto ciò di cui non sappiamo fare a meno, non partiamo mai. Il difficile è tutto lì: imparare a fare a meno di qualcosa. Quando ci riesci, il viaggio è già cominciato.

Cosa mi manca? Se me lo chiedi così, non so proprio cosa rispondere. I desideri non sono valigie: non puoi pensare prima cosa metterci e, una volta arrivato, tirare fuori le cose e distribuirle nei cassetti della coscienza. Salgono in superficie in ordine sparso, come un banco di piccoli pesci trasportati da correnti che non conosciamo. Sono ritagli di pellicola montati a caso: non ti resta che farti schermo e lasciare che si proiettino dentro di te. Spuntano all’improvviso, come il mare dietro la curva di una strada che non conosci e ti lasciano esattamente così: senza fiato, anche se sapevi benissimo che non poteva che esserci il mare dietro una curva come quella. Il videoregistratore delle emozioni, poi, non ha né il rallentatore, né il replay. I fotogrammi scorrono: punto e basta. Prendere o lasciare.

L’altra sera ti ho vista. È stato un attimo, ma eri proprio tu. Era molto tempo che non succedeva, sai? Non è sempre facile pensarti. A volte il ricordo si incaglia su alcuni particolari e svanisce su quegli stessi particolari: il modo nel quale socchiudi gli occhi quando sorridi, la piega forte-amara delle tue labbra, la parentesi graffa che unisce il collo alle spalle o la esse che ti disegna la schiena. Mi sfugge l’insieme.

Ti ho vista. Eravamo a V. -ricordi? Hai passato un pomeriggio intero a provarti cappelli in quel posto assurdo. Ecco, vorrei aver portato uno di quei cappelli, l’espressione ebete che faceva il commesso ogni volta che gli chiedevi “Come mi sta?”, la luce del pomeriggio che filtrava dalla vetrina e l’odore di riso nero e bianchetti di quella prima vacanza insieme. Eri tu. Ti ho vista. Allora ho chiuso gli occhi e li ho coperti con le mani per scucire dal tempo quell’istante e trattenerlo dentro di me. Non so quanto tempo sono stato così. Quando ho tolto le mani e riaperto gli occhi, c’era una specie di nebbia tutto intorno. Tutto era fuori fuoco. Quando la nebbia si è diradata, al posto dei tuoi occhi c’era il punto interrogativo con il quale il pesce rosso mi fissava. È stato allora che ho cominciato a temere che il mio orbitare sia come il suo: senza senso.

Il tempo passa
-frazione mobile dell’eternità-
e noi ci sentiamo immobili
e sempre uguali, dimenticando
che c’è stato un tempo
in cui eravamo diversi.
Ma occhi e pensieri di quel noi stesso,
piccolo sosia abbandonato nel passato,
tornano a ricordarcelo.


10 agosto (?)

Qui non piove mai. Al posto delle gocce ci sono le stelle. Non è la stessa cosa. Anche loro affascinano come tutte le cose che non possiamo contare, ma restano lontane anche quando le attraversi. Non puoi uscire fuori e lasciare che ti piovano addosso, sui capelli, sul viso, sui vestiti. Non puoi raccoglierle nelle mani e bere. Non rigano il vetro e non le puoi seguire mentre si rincorrono, incontrandosi, affiancandosi, mettendosi insieme, lasciandosi, ritrovandosi o perdendosi per sempre.

Di tanto in tanto, qualcuna scivola via veloce. Come un cerino buttato a spegnersi in una pozzanghera. Seguo questa polvere di luce che viene da chissà dove e va chissà dove, ma, dopo le prime volte, non fa quasi più effetto.

Per lo più, restano là. Immobili. Occhi che ti fissano senza guardare. Un’indifferenza che pesa più dell’ostilità. A volte ho l’impressione di riconoscerle. Come una strada, una piazza o la facciata di un palazzo che sembrano familiari. Un’edicola di giornali, un posteggio di taxi, la vetrina di un bar. Mi viene da pensare “Qui ci sono già passato”. Follia. Anche a guardarle da vicino, le stelle sono tutte uguali. E in questo posto non ci sono angoli, strade o piazze. Né palazzi, chioschi di giornali, posteggi di taxi o bar. È una neve infinita e immobile che brilla lontana, come luci di case viste da un treno. Provo a immaginare chi sieda dietro quelle finestre. Che faccia abbia, che voce. Cosa mangi, come si vesta. Mi chiedo se, da qualche parte, ci sia un binocolo che perquisisce la notte e riesce ad identificarmi o anche solamente a cogliere l’arco della scia, un segno del mio passaggio. Agito le braccia e sorprendo il mio riflesso a sorridere nel vetro. Penso alle parole ed a quanto assomiglino a segnali di fumo che il vento rende incomprensibili e disperde e mi chiedo se anche le mie parole faranno la stessa fine. Proverò a trasmettere ancora.

Vivere è come giocare una partita
a scacchi allo specchio.
Siamo sempre noi: giocatore ed avversario.
Eppure riusciamo lo stesso a perderci
dietro alle mosse fatte ed a quelle da fare,
senza capire che, comunque giocheremo,
finirà patta.

23 agosto (?)

Gocce di rugiada. Pensarti è come camminare a piedi nudi su erba appena tagliata, la mattina presto, quando la rugiada fa l’effetto di una doccia al contrario: sgorga dalla terra e ti bagna dai piedi ai pensieri. Energia allo stato puro. Rugiada ed erba, erba e rugiada. Lo facevo spesso, sai. Scendevo in giardino che ancora dormivi. Toglievo le scarpe e “prendevo in giro” la casa. A lungo, in silenzio, cercando di non fare nemmeno il minimo rumore. Volevo ascoltare, non essere ascoltato. Farmi antenna. Chiudere gli occhi, allargare le braccia, dilatare i pori e offrire la più ampia superficie possibile per essere vela, carta assorbente, setaccio. Mettermi in contatto e ascoltare. Avevo bisogno di ascoltare. Non ne siamo quasi più capaci. Anche noi. Mettevamo in onda milioni di parole, ma ci fermavamo di rado per capire se avevano un senso, se servivano davvero, se per caso non stavamo coprendo parole più importanti. Sapevo che c’erano parole più importanti e che, prima o poi, sarebbero passate attraverso di me. Avrei accordato loro il permesso di salire a bordo e le avrei lasciate decantare, così come mi lasciavo percorrere dalla corrente che saliva dalla terra in quelle mattine prima che tu scendessi per la colazione. È un’epoca strana. Ci abbigliamo di oggetti favolosi. Annullano le distanze -dicono- ma l’impressione è che ci regalino semplicemente l’illusione di essere dove non siamo e dove -grazie a loro- non sentiamo più il bisogno di stare. Pensaci bene: sono questi prodigi che ci tengono lontani.

Il dubbio rimane. E, come un corpo immerso in un liquido, più lo spingiamo giù, più sale. Un’ombra imbrigliata tra le gambe. Facevo di tutto per lasciarmela alle spalle ma, per quanto veloce corressi, non riuscivo a seminarla. E, allora, alzavo la voce. Come se, oltre una certa soglia, i decibel potessero trasformare i dubbi in certezze. Forse anche per questo ho cercato questo vuoto, dove ogni suono ha il proprio spazio, ogni frequenza il proprio arco di spettro e dove lasciare spazio agli altri non significa perdere il proprio.

Qui, dove non ci sono né erba, né rugiada, prendo in giro la stanza, facendomi attraversare dai pensieri di te. Permesso di salire a bordo accordato! Non smettere mai di pensare. Anche se la voce dei tuoi pensieri giunge lontana ed indistinta come il respiro del mare a chi porge l’orecchio ad una conchiglia, sappi che non smetterò mai di ascoltare.

Quando ci sentiamo alle corde e senza scampo,
non pensiamo che la morte si sconta a rate
e che moriamo ogni volta che
smettiamo di essere qualcuno,
per rinascere quando cominciamo
ad essere qualcun altro,
in una serie infinita di piccole morti.

8 settembre (?)

Se è vero che le foglie della regina delle Camelie sono le uniche in grado di alleggerire la fatica, confortare lo spirito e rafforzare la volontà, è questa la loro occasione per dimostrarlo. Le osservo disporsi sul fondo della tazza e mi sembra impossibile che mantengano tutto quello che l’etichetta promette. Guardo questi minuscoli frammenti bruni e penso che, in fondo, siamo come loro. Piccoli, confusi, schiacciati l’uno sull’altro a litigarci lo spazio di un coriandolo, come se, poi, facesse davvero differenza. Minuscole aste di un delicato gioco di Shanghai che non è possibile sfiorare senza provocare reazioni a catena di cui nessuno è in grado di prevedere le conseguenze. Ogni spostamento, ogni respiro, ogni parola, ogni gesto è una bomba di profondità che nessuno può dire dove e quando esploderà, ma è certo che nulla, poi, sarà più come prima. A volte penso che certi giochi non siano che la caricatura da tavolo dell’esistenza. Milioni di anni fa qualcuno li ha annidati nella mente dell’uomo e ha lasciato a lui il gusto di scoprirli e capire se hanno davvero un senso.
L’acqua passa sui frammenti di foglie come un’onda anomala su una megalopoli all’ora di punta. Nulla è più come prima. Lentamente le foglie si fanno bevanda e un profumo d’incenso sale. Porto la tazza alle labbra. Lascio che l’infuso scenda piano. Lo ospito a piccoli sorsi, facendo in modo che questo calore irreale si diffonda senza fretta. È una delle poche cose che mi avvicina alla sensazione di un tuo abbraccio, anche se, naturalmente, il paragone non regge. La miscela ha un retrogusto amaro, un vago sentore di rincospermo. Chissà perché mi ricorda alcuni brevi momenti di frescura al termine di lunghe notti d’agosto, quando salivo al bar dell’osservatorio ad ascoltare il respiro della città che ancora dormiva e mi chiedevo quali voci abitassero le case al di là dei platani, che radio ascoltasse chi guidava le poche macchine che tagliavano il lungofiume o che faccia indossasse chi sedeva negli autobus stanchi di quasi mattina. È a questo retrogusto che -quando l’aria si fa irrespirabile e né i libri, né i dischi, né la tua foto, né le mille cose delle quali mi sono circondato, riescono a contenere l’umore di finis terrae che mi pervade- affido un breve anelito di libertà. Poche parole, come un messaggio in una bottiglia lanciata tra le onde immaginarie di questo mare nero e muto che trattiene il fiato.

La vita è una catena di sincronie impossibili,
che sale con l’andamento circolare di una spirale.
Così va avanti il suo viaggio.
Ad ogni giro hai l’illusione di tornare
nel punto in cui eri, ma è tutto cambiato
e quello che c’era non c’è più.

12 ottobre (?)

Ho smesso di contare i giorni. Non ha più molto senso. (Ecco perché ad ogni data ho aggiunto un punto interrogativo). Possono durare mesi o minuti, ma non sai mai da dove venga l’estate che, all’improvviso, accende il tuo orbitare o se e quando finirà la notte che ti ha ingoiato e ti spia con miliardi di piccoli occhi invisibili.
A volte ho l’impressione che nemmeno i set di luci ai quali, per non impazzire in questa notte senza confini, ho affidato il compito di animare per me aurore, pomeriggi, tramonti e sere, riescano a soddisfare il mio bisogno di tempo.
Solo il pallore azzurrato del monitor ed il contorno tipografico dei caratteri sulla pagina di cristalli liquidi fanno vivere il filo di Arianna che mi accompagna e mi tiene legato a quell’ormai lontana mattina di maggio nella quale sono partito.
È alle parole che ho affidato il senso del tempo. Sono loro a segnare i prima e i dopo ed a misurare la distanza che separa un momento dall’altro. Mi aiutano a distinguerli, ad attribuire a ciascuno la propria fisionomia. È questa alternanza di segni il metronomo che scandisce il tempo dispari nel quale vivo. Solo rileggendoli ripercorro la strada che ho fatto e riesco a risalire fino ai tuoi occhi di quella sera in macchina ad ascoltare musica e fumare, quando mi hai chiesto: “Cosa hai detto che devi fare domani?”, entrambi ignari del fatto che avevi cominciato ad invadere i miei pensieri.
Forse è anche per questo che tengo un diario. È la prima volta. Ho sempre pensato che fosse una perdita di tempo. (Le cose bisogna farle, non scriverle, pensavo). Ed ora, invece, mi accorgo che le parole sono lo scrigno del tempo e che senza non potrei più dire né dove, né quando, né cosa sono. Per questo scrivo. Non per la speranza che qualcuno (nemmeno tu), un giorno, trovi questo file e possa ricavare chissà quale verità da questi segni. Ma perché ordinare il flusso dei pensieri significa non perdere il contatto con il tempo e perché ci sono momenti nei quali non riesco a rispedire al mittente il desiderio di aprire gli occhi e vederti scivolare via da rayon e seta, entrare nella doccia e sentire la miscela di magnolia e sandalo del docciaschiuma confondersi all’odore della tua pelle.

Il tempo si maschera da spazio,
per farci credere di voler tornare
nei luoghi dove siamo stati.
Ma la nostra non è sete di spazio,
è sete di quel tempo nel quale
il nostro sguardo sapeva dare sapore
e senso ad ogni cosa
e faceva nuovo ogni istante.

29 ottobre (?)

Mi accorgo solo adesso che la tua foto mi è invecchiata tra le mani. L’avevo sotto gli occhi giorno e notte e, forse, proprio per questo non me ne sono reso conto prima. Siamo animali strani, sai. Sappiamo benissimo che questo fiume in piena travolge e trascina via, eppure riusciamo sempre a trovare il modo di convincerci che certe cose non cambiano.
Ci sono caduto anch’io. Ho creduto che sulla pelle delle passioni non sarebbero mai comparse rughe, soltanto perché mi illudevo che il vento della volontà avrebbe spinto le vele dei desideri a doppiare il tempo. Ma, adesso, mentre accarezzo la tua foto, cercando di ravviare il tuo sguardo e il tuo sorriso, mi rendo conto che non è così.
Chi dice che i pensieri non invecchiano mente. Invecchiano eccome. Come tutte le cose. Il fatto è che con questi continui scorci di eternità, la vita confonde, inebria, stordisce. Ci lascia intravvedere scampoli d’infinito e noi restiamo intrappolati nel vortice di immagini che non sappiamo decifrare: aquiloni senza filo, incapaci di sollevarsi da terra.
La verità è che il futuro inganna da lontano.
Volevo risalire la coda del tempo e, invece, lui mi ha preso alle spalle. Non è la forza di pensarti che mi manca, né il desiderio di averti. Continuerò a cercarti e più piccola sarai al mio sguardo, più grande diverrai nei miei pensieri, ma il tempo è liquido e le mie mani non riescono più ad arginarlo. Tracima e ad ogni goccia che passa tra le dita un nuovo segno si aggiunge, altera la topografia della tua pelle, macchia il tuo sguardo e piega il tuo sorriso. Ed io non posso far altro che guardare. Né bastano gli umori dei miei occhi a compensare le gocce che scivolano via.
Resto qui, incapace di declinare i pensieri al futuro e staccare gli occhi dall’indicatore che misura le speranze di incontrarti: la lancetta, sulla scala graduata da zero a infinito, punta fissa il sottoscala.
Osservo il cursore che lampeggia al centro dello schermo vuoto. In questa notte senza fondo, sento il tuo nome allontanarsi, come una ferita che non si rimargina, ma resta, unica debole eco di un dolore lontano. E quando ti chiamo, non esce alcun suono. La mia immagine riflessa nel vetro è come la smorfia di un attore del muto e per la prima volta capisco che qui, sulla coda del tempo, dove si vive un eterno presente, non mi sarà mai più dato di sentire nemmeno l’effetto che fa ascoltare anche soltanto il suono del tuo nome, Domani.

E allora chiudi gli occhi,
spremi il desiderio e lascia
che il suo nettare scenda ad ubriacarti.
Quando la tua voce mi raggiungerà
e alzerò lo sguardo per cercarti,
sorriderò pensando che -come il mio cuore-
anche l’universo, per ricordarti,
ha lasciato il tuo posto vuoto.


Ultime parole del viaggiatore

“Mi guardo le mani come se i pensieri si raccogliessero lì, come acqua
piovana.

Vorrei poterli bere e dissetarmi l’idea che la vita possa essere una mano
aperta dà serenità.

Ma è una serenità breve che si infrange appena sollevo lo sguardo su questa
notte senza fine.

Se mi osservo riflesso nel vetro capisco che è come quando mi preparavo a
partire.

Non dico che questo tempo sia trascorso invano, respirare l’infinito
sconvolge, ruba il cuore e nulla è più come prima e le meraviglie di cui gli
occhi si riempiono danno sensazioni che mi renderanno schiavo di una nuova
nostalgia.

Ancora una volta sono dietro una finestra non molto diverso dal bambino che
sperava che il soffitto del mondo gli restituisse il suo palloncino.

Anch’io aspetto un segno, un sogno, un suono, qualcosa che rompa questo sonno.

Ma questa notte è senza soffitto e quel palloncino non ritornerà.

Volevo allontanarmi verso me stesso per sapere se è vero che ovunque si vada il
cielo ha lo stesso colore e dovunque si prova lo stesso mal d’universo.

Lancio il sasso di queste parole nello stagno delle tue emozioni…lascialo cadere sul fondo e segui le onde.

Non so su quale riva ti porteranno ma spero che, quando ti volterai indietro
a guardare la strada, sentirai che ne è valsa la pena.”

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