31 maggio 2011

Giocavo per pomeriggi interi
con pupazzetti di plastica
pellerossa e cowboy
sudisti e giubbe blu,
mischiandoli un po’
e buttando in quella mischia
anche qualche cavaliere medievale
e un policeman americano.
Decidevo a un certo punto
delle scaramucce, degli agguati,
dei duelli, delle battaglie,
chi doveva vincere,
Sceglievo una volta quelli
una volta quegli altri.
Comunque alla fine vincevo sempre io.
Sul piano superiore di una lavapanni,
come chiamava mia madre la lavatrice,
davo con una certa perizia
colpetti, gancetti, schicchere
alle due squadre contrapposte di monete
da dieci lire,
che coloravo nel tondino dello zero
o di rosso o di blu
per distinguerle.
Lo scopo stava nel colpire una monetina da cinque che fungeva da palla o da disco, un po’ come l’hockey su ghiaccio e provare a segnare mirando le rispettive zone di goal, fatte dai due piccoli manici per sollevare il coperchio.
Stavo una volta dalla parte dei Rossi
e una volta dalla parte dei Blu.
Mi spostavo a destra e a sinistra e tiravo.
Ma siccome gareggiavo contro di me,
uno dei due primeggiava e quello, guarda caso, ero io.
Da soli la vittoria è sicura.
Quando non ci sono antagonisti e avversari non c’è proprio gara.
Anche la vita, dicono, sia una partita.
In cui non sempre arriva in testa il più bravo ma spesso il più furbo o il più prepotente.
Colui che si fa- e le impone- le regole sue.
Perché non vinca
la legge del più forte,
la legge deve essere
più forte di tutti.
Più in alto. Sovrana.
Al di sopra di ciascuno degli individui.
Le leggi non hanno dentro
solo pene e sanzioni,
ma anche comportamenti,
modelli, valori.
Tra le leggi
c’è la storia degli uomini.
Gli errori, le speranze,
gli orrori, gli aneliti.
Le aspirazioni agli ideali perfetti.
Gli antidoti alle colpe che si ripetono.
La lotta per diventare migliori.
In mezzo le mille battaglie.
La gioia esultante, il trionfo dei vincitori.
La mortificazione e la dignità del perdente.
Eppure quasi mai si sa emergere
senza umiliare l’altro.
Per questo le sfide più belle
sono quelle in cui più che vincere
è importante convincere.
Cioè vincere insieme.
La competizione in cui vincono tutti
e nessuno perde.
Stasera mettevo brachette e scarpini
per giocare (si fa per dire)
l’annuale Partita del Cuore.
Per correre, corro.
Come un fondista.
Sono un buon nuotatore.
Resistenza e polmoni.
Spirito di sacrificio.
Ma la palla per me è solo un solido geometrico.
Una sfera.
Prima calcolo l’area e poi forse la prendo.
Perché di football un po’, e anche più, ci capisco.
Però un conto è la teoria,
un conto è la pratica.
Se sei abile in una, in quell’altra vali meno sicuro.
D’altronde se nelle due prime particelle nella polvere dell’oratorio di Centocelle non mi avessero spaccato di seguito due paia d’occhiali, con mio padre parecchio infuriato, e fino all’avvento delle lenti a contatto, niente più calcio, la vicenda, può darsi, sarebbe andata in modo diverso.
Stavolta comunque ero preparato sul serio.
Un mese, e quasi ogni giorno,
allenamenti anche sotto il sole cocente.
Scatti, scarti, durate, sudate, tiri, torelli…
Sarei potuto stare in campo anche due ore.
Pure tempi supplementari e rigori,
Giro di campo con la coppa.
Carosello con la bandiera.
Bagno nella fontana.
Bagno da bottiglione di champagne.
Alla vigilia, però, qualche doloretto compare.
Contrattura al polpaccio destro.
Vesciche al piede sinistro.
E alla fine un bel buco al tallone.
Pensare, che una volta, per non farti giocare ti facevano un bel buco al pallone.
Ma ci si può tirare indietro in una cosa così?
Mercuriocromo, crema antibiotica, pomata anestetica.
Cerottone, sagoma di gommapiuma, fasciatura speciale.
Bisognava vender cara la pelle.
E la mia intorno al calcagno
era andata già a ruba.
Solo a metter la scarpa
che male.
Ma quando il gioco si fa duro,
i duri cominciano a giocare.
Si fa per dire.

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