Sono io

biglia

Un’umanità che si consuma nell’attesa di trovare il coraggio di traghettarsi verso un tempo nuovo (“Di là dal ponte”); che non si rassegna all’inquietante follia di un mondo in agonia (“Requiem”) – nel quale, se non sei un pò matto, rischi di perdere la testa (“Serenata in Sol”) – ma che non smette nemmeno di cercare il senso del suo viaggiare (“Per incanto e per amore”), anche se il viaggio è così breve che si riesce appena a bagnarsi le labbra (“Tienimi con te”); un’umanità che sente il bisogno di ritrovare punti di riferimento autentici e profondi (“Patapan”), per compiere, fino in fondo, il proprio tragitto (“Grand’uomo”), convinta che sia sempre tardi per amare (“Mai più come te”) e che darsi più amore resti l’unica speranza (“Sono io”); ma anche un’umanità che non smette di stupirsi della forza di questo sentire così difficile da comunicare (“Tutto in un abbraccio”) che, in fondo, trova quasi sempre le cose importanti della vita “Sulla via di casa mia” e che, nonostante le ferite riportate nelle non poche crisi di percorso (“Quei due”), si ritroverà “Fianco a Fianco” per stringersi intorno al sogno mai stanco che l’anima. Sono queste, in estrema sintesi, le tredici piccole storie che animano “Sono io, l’uomo della storia accanto” (2003).
“Sono io” – spiega Baglioni – non come una dichiarazione imperativa, ma come una risposta. La risposta ad una delle tante domande impossibili che la vita pone: “chi sei?” Sono io, appunto. Così come sono. Con la stessa voglia di tutti di esserci e l’identica capacità di capire i perché”. E, ancora, “L’uomo della storia accanto” (neanche questo album sfugge alla “regola” del sottotitolo), perché l’io del quale parlo non è né un super – io, né un io che pretende di occupare da solo il centro della scena. Ma un io assolutamente normale. Un io-tra-tanti-io che, come tanti, non vive la grande storia. Semmai la fa vivere. Si perché è la grande storia che vive delle nostre piccole storie”.
Un “io” quindi, che non esprime chiusura o isolamento, ma significa apertura, confronto e ricerca di armonizzazione, e, infatti, trova la ragione della sua presenza solo nell’insieme, nel “coro” dell’umanità. Coro, che è qui metafora di una società che ha sempre più bisogno di riscoprire il valore dell’armonia e ritrovare le ragioni che uniscono, superando i motivi di divisione e di lacerazione. Una società in cui sia, finalmente, chiaro che diversità e molteplicità rappresentano una ricchezza e non un costo. Esattamente come in un’orchestra, nella quale ciascuno impara a conoscere, comprendere, rispettare e amare l’identità, il ruolo, la parte dell’altro. Una ensemble che ha il potere di rovesciare la parola “io”, arricchirla di un nuovo elemento e farla diventare “noi”.
Sono proprio le voci di queste piccole storie (tutte apparentemente uguali e tutte solo apparentemente insignificanti) il sale della storia con la esse maiuscola. La filigrana che la tiene unita e le dà senso. E “Sono io, l’uomo della storia accanto” – quattro anni dopo la grande parabola di “Viaggiatore sulla coda del tempo” – rappresenta il tentativo di dare dignità a queste piccole storie, semplicemente ricordando che esistono, con il segno leggero di una matita su un pentagramma.
Con “Sono io”, Baglioni volta pagina. Dopo una lunga stagione di dischi complessi (“Oltre”, 1990; “Io sono qui”, 1995; “Viaggiatore sulla coda del tempo”, 1999) sceglie, sia per le sonorità che per i testi, un linguaggio più immediato, più comunicativo. Più istintivo, forse. Il risultato è un lavoro meno ragionato e più amato, dov’è il cuore – più che la testa -a tenere il timone, a fare la rotta. Passione ed emozione, ma, soprattutto, leggerezza (una leggerezza che non significa superficialità, ma essenzialità) sono le parole chiave di un progetto che vuole ricordare che anche un pensiero profondo può essere leggero, senza che questo voglia dire meno espressivo o privo di significato. Al contrario: più leggeri siamo, più in alto riusciamo a volare e, oltre a vedere cose che abitualmente non vediamo, possiamo vedere sotto una prospettiva diversa anche quelle che abbiamo sotto gli occhi ogni giorno e delle quali fatichiamo a cogliere il senso. A volte, “più che di un mondo nuovo, c’è bisogno di occhi nuovi per guardare il mondo”.
La distanza che separa il momento creativo, l’ispirazione, da quello della realizzazione, viene, qui, ridotta al minimo. Ne esce fuori un album molto “suonato” ed estremamente fresco. Un album “fatto a mano”, nel quale la canzone viene utilizzata in un arco particolarmente ampio di forme possibili: dalla dimensione acustica a quelle sinfonica, passando per una paletta cromatica estremamente ricca. Anche per questo, contrariamente ai progetti precedenti, non esiste un colore dominante. Viene rispettato il “colore” naturale di ogni brano. Ogni canzone è e, quindi, suona diversa, esattamente come ognuno dei tanti “io” ha il proprio sguardo, il proprio modo di stringere la mano, un timbro di voce, un modo di parlare e camminare. “Sono io” è, quindi, un disco “plurale” e non ha senso cercare quello che abitualmente si chiama “il brano di punta”, il singolo, il radio-hit. Non ha senso cercarlo, perché non c’è. C’è, al contrario, un gruppo di canzoni, come un gruppo di persone la cui vicenda ha pari dignità e pari valore e per le quali non è possibile marcara una gerarchia. Non un album “verticale”, dunque, ma “orizzontale”, nel quale tutti i brani sono sullo stesso piano. Non ci sono prime e seconde file. Il primo pezzo che si sente (“Sono io”) è primo tra pari. Anche tutti gli altri, infatti, sarebbero “primi pezzi”, se non fosse che la natura stessa del supporto discografico impone che i brani vengano disposti e ascoltati in successione.
Al contrario di “Viaggiatore sulla coda del tempo”, questo non è un album – storia nel quale le canzoni sono legate insieme dal filo rosso di una vicenda, ma un album di canzoni sulle mille facce di un tema centrale. E il tema centrale è l’amore. Non un disco di canzoni d’amore (ci sono anche quelle), ma di canzoni sull’amore. Baglioni riesce, dunque, a superare il pudore che, per molto tempo, lo ha tenuto lontano da questa parola. “Credo – spiega il musicista – che (amore) sia la parola più importante di cui disponiamo e che dovremmo servicene con un certo riguardo. Invece è la più inflazionata sul mercato dei pensieri (quante volte un “ti amo”, non vale il fiato con cui è emesso?) e ogni volta che la buttiamo via, perdiamo di più di quanto immaginiamo”. E, ancora: “Ho cercato di dare voce a questo mio bisogno di tornare in possesso di questa parola, per vedere che senso avesse scriverla e cantarla oggi e anche perché credo sia la categoria della quale c’è più bisogno, in questo momento di uomini feriti che abitano un mondo ferito”. Canzoni sull’amore, dunque. Ogni genere di amore. Quelli in lenta e faticosa costruzione, per i quali i ponteggi sono ancora in allestimento; amori del passato che continuanoa proiettare la loro ombra sul presente; amori che si guardano negli occhi o che, ormai, si danno irrimediabilmente le spalle e si allontanano in silenzio. Amore personale (amanti, amici, genitori e figli), ma anche amore universale (gli altri, le idee, la vita, la pace). Amore per tutti quei pensieri, quelle parole e quelle cose che rendono la nostra vita un posto degno di essere visitato almeno una volta, e, certamente, anche quell’amore che ci porta a cercare l’altra metà del nostro io o, come ha scritto qualcuno, l’anima a noi “assegnata”.
La title track (“Sono io”) – ballad acustica, con leggere connotazioni folk – ruota intorno al tema dell’identità delle piccole storie che corrono parallele alla grande Storia. In questo trafficato crocevia che è l’infinita partitura della vita (di cui ciascuno è una nota piccola, ma insostituibile) l’unica speranza è dars più amore. “Tutto in un abbraccio” è la canzone degli amori infelicii, del tempo che finisce col soffocare anche le passioni più forti (“e ammazziamo il tempo e ammazza noi quel tempo indietro”) e del bisogno di passare al setaccio il passato per vedere cosa è rimasto.
“Grand’uomo”, invece, è passaggio di testimone, promessa e speranza. Il protagonista, però, non è un superuomo, ma il piccolo-grande-uomo che con un gesto, una parola, una scelta, un atto riesce a dare senso al proprio percorso (“fa ammutolire il tuono”, “la morte porta a spasso”, “s’illumina di stelle”) e, tavolta, a quello di tutti noi (“cammina sulla luna”, “ai carri chiude il passo” o “sa rovesciare un trono”).
“Mai più come te” – ballad acustica, intima e dolente – è una riflessione sul ruolo che l’amore dovrebbe avere nella vita (è sempre tardi per amare) e sulla capacità/incapacità di riconoscerlo, accoglierlo, viverlo. Se è vero che “l’amore è la pena da scontare per non volere stare soli”, è anora più vero che “è meglio amare e perdere che vincere e non amare mai”.
A volte (“Sulla via di casa mia”) cerchiamo lontano ciò che è sotto i nostri occhi. Vaghiamo da un posto all’altro, nell’illusione che siano i posti a contenere le risposte, senza renderci conto che certe risposte vanno cercate dentro e non fuorii di noi (“io sono stato sempre altrove, non so dove, uno di continuo via, però le cose della vita, le ho trovate sulla via di casa mia”).
Tra esperienza personale e metafora, “Patapan” affronta il rapporto genitori-figli, il bisogno di confronto e di una guida a cui potersi affidare quando il barometro della vita volge a burrasca (“ma dimmi dove è che stiamo andando e questa vita dove mai ci sta portando, non era questo il mondo che volevamo e non è il cielo che sognavamo”).
“Quei due” è, invece, la lenta, ma inesorabile, disgregazione di un rapporto di coppia. Parole, gesti, sguardi e pensieri appaiono svuotati di verità e passione. Lui e lei restano protagonisti di una finzione, fin quando il gioco degli specchi non diviene insostenibile, e allontanarsi significa solo rimettere le cose al loro posto.
Con una veste ironica e, a tratti, satirica – con giochi di parole (“sono solo sotto il sol e so solo un solo in sol”) e una metrica che ricorda l’andamento incalzante di certi rap – “Serenata in sol” ci ricorda che, se non siamo un pò matti, questo mondo rischia davvero di farci perdere la testa.
La vita (“Tienimi con te”) è un fiume in piena che trascina via, ma – anche se il nostro destino è quello di essere solo sabbia e la pena è quella di poter “bagnare appena le labbra” nell’oceano infinito del tempo – finché saremo insieme riusciremo a imbrigliare e imbrogliare il tempo.
“Fianco a fianco” si riferisce al momento del concerto: inesauribile cortocircuito di energie dove artista e pubblico, diventano, l’uno per l’altro, mittente e destinatario di grandi emozioni.
“Requiem” è un inno alla musica: linguaggio universale e veicolo di pace. Una chiamata a riprendere il proprio posto, imbracciare di nuovo il proprio strumento, perché la voce della musica salga più forte di quella della guerra, raggiunga ogni anima e ogni cuore e ci spinga a dichiarare soltanto la pace.
“Di la dal ponte” è un invito a liberarsi da ogni tipo di zavorra che appesantisce l’anima e attraversare, finalmente, il ponte che ci separa dal tempo nuovo al quale l’uomo è sempre in grado di dare una forma migliore.
Chiude l’album “Per incanto e per amore” (adattamento dell’immortale melodia della cantata 147 di Bach), un invito al dialogo, alla tolleranza, alla solidarietà, perché i nostri gesti acquistino nuovo senso e il “prossimo sia non soltanto chi ti è accanto ma anche il prossimo che verrà qui”.
Molti gli “io” che hanno messo la loro storia accanto a quella di Baglioni per la realizzazione di questo album: Paolo Gianolio (che, insieme a Baglioni, firma anche gli arrangiamenti), per la parte musicale, orchestrazioni, realizzazioni e produzioni; Giuseppe Cesaro e Guido Tognetti, per la parte artistica; Rossella Barattolo e Donella Serafini, per la parte organizzativa. Per le esecuzioni, oltre allo stesso Baglioni (pianoforte), troviamo: Paolo Gianolio (chitarre, programmazione computer e tastiere, basso in “Serenata in sol”, “Requiem” e “Patapan”), Gavin Harrison (batterie e percussioni), John Giblin (basso e controbasso), Paolo Costa (contrabbasso elettrico, basso in “Mai più come te” e “Tienimi con te”), Danilo Rea (pianoforte e organo Hammond in “Tienimi con te”), Emanuele Cortesi, Moreno Ferrara, Antonella Pepe e Silvio Pozzoli (cori). Tra le collaborazioni, la London Session Orchestra, Lele Melotti e Margherita Graczyki. Ben sei gli studi coinvolti nel progetto. Per le registrazioni: “Angel Studios” (Londra), con Niall Acott e Matt Bartram; “Bourne Place” (Londra), con Gavin Harrison; “Pick up” studio (Reggio Emilia), con Paolo Gianolio; “Industria Musica” (Milano), con Pino “Pinaxa” Pischettola (che, assistito dal Raffaele Stefani, realizzerà anche i missaggi); “Quattro 1″ (Roma), con Marti Robertson; per le masterizzazioni: “Nautilus” (Milano), con Claudio Giussani. Le foto (copertina e book) portano la firma di Alessandro Dobici, mentre il progetto grafico è opera del “Contents Studio” di Roma.
Un album dedicato – come annota lo stesso Baglioni in chiusura del booklet – “alle persone della mia vita che sono così tanto nei pensieri e troppo poco nelle parole e nei gesti”. Una tela affascinante, un grande affresco nel quale le storie individuali si trasformano in altrettanti universali della condizione umana, tra riferimenti autobiografici, simbolici, passione individuali e sociali. Tredici brani di straordinaria intensità e spessore che la forza di suoni e parole nudi rendono ancora più capaci di lasciare il segno e che testimoniano sfruttando fino in fondo le potenzialità poetiche offerte dalla canzone d’autore.

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