C’era un cavaliere bianco e nero

“Io sono ancora in viaggio
(le favole delle storie qualsiasi non finiscono mai)
Non sono ancora giunto dove arriverai tu,
camminando le vie dei colori.
Intanto ti mando qualche parola,
un po’ di mie notizie e delle fotografie.
Così, almeno, quando le guarderai,
io sarò lì con te.

Lo guardo come se fosse qualcos’altro, con uno strano effetto di distanza, un sentore buffoamaro di non-appartenenza. La stessa sensazione che mi da la radio quando mi ruba la voce o la televisione che mi cattura, inquadrandomi, e mi fa diverso. Pesa un po’ questo gioco al quale non ti abitui mai, perché non sai più se sei questo o quello, quale sia l’immagine e quale la persona, quale il volto, quale l’icona. Se io sono quello che fissa l’obiettivo o non è lui che marca sulla carta un tratto, un’impressione,il punto di contatto tra un prima e un dopo, il perimetro di un vuoto. Anche per questo ti scrivo, per capire che forma hanno i miei pensieri, vedere se questi sogni mi assomigliano di più di quegli occhiali e di quelle mani che mi fissano dai provini, da queste stampe satinate sgranate come occhi sul nuovo. E se c’è un senso nelle linee che traccia questo inchiostro, se pesi più il passato o il futuro su questo presente incerto come un vino che è ancora mosto. E perché, quando guardo oltre il parabrezza di quest’auto in corsa, sulle strade della mia vita, le strisce bianche sembrano tutte uguali, rassicuranti e inoffensive, mentre sono così differenti quando scivolano dietro alle mie spalle.

Bella mia io vado via e non ti porto con me

Dove sarei andato?
Dov’ero stato fino ad allora?
Ma più che altro, dov’ero?
E cos’era quel martello sordo che mi batteva su un lato del cuore? Quel motore sempre acceso dentro?

C’è un viaggio che ognuno fa solo con sè perché non è che si va vicino perché un destino non ha…

Non fuggivo da qualcuno. Dalla galera del suo bene.
Io scappavo da me stesso.
Dall’ergastolo di quella eternità
Dallo specchio di giorni tutti uguali.
Solo, ogni giorno un po’ più vecchio.

Un mattone vuole esser casa, un mattino divenire chiesa. Ed il matto che c’è in me che si chiede che cos’è: Vuole diventare qualche cosa.

Solo i matti sono veramente qualcuno. Colui o quello che decidono di apparire.
Ma, almeno, ero matto? Ero più il principe Amleto o uno seminascosto nel coro?
Un guitto immalinconito dall?essere tanti personaggi per non esserne alcuno?
Provare tutto per non sentire più niente?
Aprire o chiudere una porta? Per entrare o uscire? Partire o tornare?

E sarà una strada senza fine sotto ad una spada o su una fune
a cercare il mio far West, a trovare il Santo Graal,
una corsa brada oltre il confine.

Al di qua o aldilà della rete. L’avventura. Prossima, ventura. L’abisso. La vertigine.
Sospeso tra tempo e temporale. Fortuna e fortunale. Suono e immagine, tuono e fulmine.

Una luce prenderò per te, là fuori
quando io camminerò le vie dei colori.

Un cacciatore di raggi, cristalli, stelle, lucciole, scintille, fiammelle.
Qualunque cosa fosse, anche un riflesso di lama, un miraggio di caldo, uno sguardo di dentro.
L’avrei riportata, avvolta in una coperta. Salvata dal freddo, dal buio.

Scalerò le rocce in mezzo al vento, sulle tracce di chi ha perso o vinto,
vagherò la mia odissea, nell?idea di te mia dea.
Tagliati le trecce e vai in convento.

Ti tradivo con me stesso. Con il mio bisogno di sapere. Con la solita, infantile, ripetuta domanda.
Cos’è Perché? Perché.

Una voce prenderò per te, là fuori, quando io camminerò le vie dei colori.

E in quel silenzio avrei cercato parole nuove. O se non altro, nuove parole.
Roche o chiare che fossero, le avrei dette con forza? Con coraggio?
Un uomo nuovo. Chissà, poi, quanto sono cambiato. Mi riconosceresti?

C’era un cavaliere bianco e nero prigioniero
senza un sogno né un mistero, senza fede né eresesia
Senza le ali di un destriero, senza le onde di un veliero.

Dov’erano le montagne più alte, gli oceani più vasti e ogni volta l’istinto di scattare.
Ancora una falsa partenza. O in partenza perdente per le mie poco allenate ginocchia storte.

Se la sorte rivolesse ciò che speso
io forte non sarei per il tuo peso
a volare in un rodeo a valere nel torneo
della morte ed essere il tuo sposo.

Chi avrei visto, incontrato? Cosa avrei scoperto?
Chi sarebbero stati i miei Artù, Parsifal, Morgana, Merlino?
Chi mi sarei ritrovato vicino? O di fronte?
Quale scudiero? Quale avversario? Quale folla festante?
Era ora di andare.!

Il ponte lavatoio si abbassò, quel cavaliere lasciò il castello per primo radunando musicanti, attori e giocolieri, pronti a tutto e pronti a partire verso contrade nuove sulle strade dell’incontro. Danzò in un’arena di mare per ritornare in ballo da quel cerimoniale solitario.
Erano lunghi campi di gialli girasoli quelli che si affacciavano al desiderio di viaggiare. Correvano ruote, finestrini e asfalto bruciato di grigio. Il respiro stretto al fiato appannato sul vento. Occhi smaniosi per guardare fuori in quello spazio in salita: un anfiteatro di terra e di braccia come gocce di sale. Ogni distanza era una meta, ogni svolta un giro di sole. Rimbalzava la musica, compagna di viaggio. Poi fermarsi a cantare. Ritagliò lembi di stoffa colorata e li avvolse intorno a quel tondo di tamburo. Compose così un nuovo canto che bussò a quella porta curva come le porte del cielo. Arrivò dalle stelle come un immenso rapace costruito da tubi e da strutture tonde d’acciaio. Aveva ali congegni motorizzati. Emetteva segnali dalle frequenze precise. Là sotto quell?uomo ne osservava la forma spaziale, promettendo a se stesso e ai presenti vicino un’avventura da vivere da VIVI …
Ogni volta si costruiva quella fantastica giostra tonda come uno specchio di luna. Un diamante di luce brillava quel ritmo modellato di piedi a danzare tutto intorno, tutti intenti a quell’uomo, ogni giorno in quel grande torneo. Passò attraverso un labirinto di luci ritagliato di raggi come l’esplosione di un sole, indossando un mantello di maglia lucente spaziale, per poi ritrovare il cammino disseminando la strada di canti d?amore come molliche di pane. Sulle linee di quella mano tesa uno zingaro lesse peregrinazioni, viaggi, villaggi da visitare, altre persone da attendere, mondi nuovi da esplorare e scoprire, battaglie epiche senza mai trovare una fine. Ma di quei tormenti da dolore simili al male, lui avrebbe trovato comunque uno stile. Volò spinto in alto da voci con ali fatte di mani.
Cambiò le abitudini lontane provocando attriti e scintille, attimi di stelle cadenti annullate nell’aria dal gelo che rimane. Rovistò nel cuore, muscolo stanco, pelle di tamburo, e ci trovò un sorriso strappato da un intreccio di teli, una spada incantata. Tranciò ragnatele e legami. Il sole in quella stanza non rimase indifeso; un pensiero sospeso soppesò quell’attesa smaniosa di riempire un’altra valigia. Si voltò e vagò, con quello sguardo di falco lontano dalla torre della sua attesa, dove aveva scelto per quel tempo di stare.
Soffiò poi un vento di partenza su quelle braccia piegate verso l’alto per imparare invano a volare. Attraversò quel cielo esposto al sole lasciando acqua e zattere di terra a centinaia di piedi e sotto gli stivali un’altra promessa scommessa per chi lo aspettava.
Pelle su pelle per abbracciare imbracciando curve sinuose di corde e di legno. Alzò le mani fronde d’alberi per riposare all’ombra di quel viso guerriero, senza che questo gesto fosse inteso mai come un segno di resa. Il cielo si girò e sbirciandolo con un lontano cannocchiale sembrò che le stelle fossero cadute tutte laggiù: migliaia di piccole fiammelle in quel catino a terra a pochi istanti dal mare…
Intorno a quel carro viaggiante di luci e di suoni rimase ancora qualcuno a guardare, e forte l?odore di quel magico prendere e dare. I giocolieri e i girovaghi, i musici tutti erano andati a dormire, restavano ombre. Mise le mani sugli occhi, nessuno lo poteva più vedere, per anticipare il sapore del buio, navigando la notte col sul veliero fantasma tra vele tese dal vento dei sogni. Approdò su quell’isola, rocce nere d?inchiostro incastrate in quell’acqua chiara di mare. Seguì un canto quasi portato dal vento o da una donna sirena; dove sei, si domandò, forse solo dentro di sé! Ma quell’impegno era un viaggio per arrivare a scoprire altre terre, altre luci, colori forti come rossi tendaggi di sole. Quella canzone tornò come una nenia nelle sue orecchie sprovviste di tappi o legami. Si fermò così, quell’uomo vestito di scuro, su quegli scogli sfrangiati tra le frange di mare, a cercare per lei il modo di non ripartire. Varcò la consapevolezza del presente in quei luoghi geografici senza una mappa preordinata, viaggi musicali per quella continua speranza del futuro. Cercò tra quei volti disegnati a chiaroscuro il linguaggio dei suoni dei tamburi, in posti fuori dalle rotte, dove c?è bisogno di spazi in uno spazio
sconfinato per un mondo ancora affamato di giustizia e di pane. Il vento cambiò come il tempo domani e domani. Era tempo di andare.
Il posto, un luogo dove negli anni molte braccia hanno stretto metalli e vite per costruire un lavoro. L’uomo, tra i cocci di pavimento in un’eco di solitudine e muri, passi così lenti da poterli riascoltare. La schiena curva in avanti per osservare il domani. La musica in quei corridoi, correnti d’aria e di vuoto, a riesumare ricordi in un vibrare di note, come se tra il tetto, il cielo e le stelle diurne là fuori si stringesse un patto segreto senza diavoli o santi, per dare intenso il profumo ai colori.
Noi mai più soli contro ferraglie d’occhi rossi di drago…
Noi lanciatori del cuore, suonatori d’aria,
Noi viaggiatori di dentro,
Noi cacciatori di stelle, attori d’arte varia.
Noi scalatori del vento,
Noi trovatori del niente, autori di canzoni, incantatori per gioco.
Noi cercatori di tutto, pittori di illusioni.
Noi mangiatori senza fuoco.
Noi no, noi mai più
Noi cavalieri di ieri, pionieri del futuro.
Noi forestieri del mondo.
Noi guerriglieri di pace, stranieri oltre il muro, carovanieri sullo sfondo.
Noi musi bianchi e neri, bambini della fame.
Noi prigionieri in un ghetto.
Noi numeri a troppi zeri per assassini e trame.
Noi poveri senza tetto.
Noi no, noi mai più
Noi duellanti a vita, emigranti senza terra, anime urlanti tra bombe.
Noi musicanti di corte, fanti in una guerra, lacrime e pianti di tombe.
Noi mendicanti di canti, istanti dell’eterno, sguardi sognanti a digiuno.
Noi saltimbanchi del cielo, santi dell’inferno.
Noi tanti, noi nessuno.

Quel viaggio si consumò come divorato dal calore del fuoco. Correva l’anno cambiando la sua data finale. Fuoco così come bruciò quell’auto in un gesto incosciente e consumato. Fuoco tra quelle macerie e adesso camminamenti a zig zag. Un altro po’ di tempo è fuggito via, armato di propositi e pioggia per lavare il campo dalle battaglie del cuore, senza più nessuna fretta, come un lenzuolo al vento lasciarlo asciugare…
Un cielo di pergamena tra le nuvole e la torre lo trovò appoggiato con quel viso scavato nuovamente a guardare oltre le piane, fino a che lo sguardo miope e scontornato poteva arrivare. Laggiù un altro insieme di luci, altri mondi dove poter esplorare. Scommise tra sé di voler tentare, giocandosi l’anima e tutto quello che ancora poteva rischiare. IL tappeto atterrò, e tutti quanti, invitati a vedere, niente trucchi, disse il mago, che uscì…
Ogni strada una porta, ogni porta una strada, niente mobili dentro o altri oggetti a ricordare una casa, soltanto una chitarra per dissolvere i pensieri disseminati negli anni…
Quella strana macchina del tempo ripartì, lasciando lo spazio di ieri e del più lontano dei tempi, per andare dritta oltre le cime del futuro, portando con sé quell’uomo e un libro di favole buone da leggere un giorno, quando non si è più bambini. Ritornò al mare, proprio come un giorno era stato desiderato. Camminò lungo le spiagge lunghe, sui passi delle imprese passate, lasciandosi alle spalle quella costruzione di pietre, battaglie, carri luminosi e notturne serenate.

“E’ un esercizio che faccio da sempre: prima con i giocattoli, poi i dischi, i libri, i pensieri. E ora queste foto. Tirarle fuori, metterle una accanto all?altra, contarle, ordinarle. Come se il senso della vita fosse tutto nel mettere le cose a posto, in modo che quando chi – come te – ha le chiavi della stanza, entra e accende la luce, possa trovare tutto in ordine.A ognuna corrisponde un nome, a ogni nome un luogo, un momento, un odore, un colore, un timbro di voce, un passaggio d?occhi e una frase. Sono qui, in ordine sparso, sul pavimento della mia coscienza, tra compiacimento e nostalgia e le guardo mentre mi osservano.

Una pace prenderò per te, là fuori quando io camminerò le vie dei colori

Ti scrivo da Ansedonia. Una casa vicino al mare (non troppo vicino, non voglio che quest?’inverno mi abbandoni del tutto). Dovrei lavorare, ma queste foto portano lontano, prima del luogo dove nascono i pensieri, oltre il punto al quale la memoria può risalire, prima del soffio che rende la voce voce e del momento nel quale il pennino comincia a tracciare sulla carta millimetrata del sentire, l?onda frastagliata delle emozioni.

C?era un cavaliere bianco e nero prigioniero
senza un posto né un sentiero
senza diavolo né dio.
Senza un cielo da sparviero senza il grido di un veliero

Guardo quest’altro me stesso, i suoi occhiali, le sue mani, le cose e le persone dietro e intorno a lui.

Io ti lascio senza perderti, e ti perdo un po’
anche se poi lasciarti è un po’ perdermi…

Apri la porta, scendi le scale fino alla siepe di pitosfori. Fermati e guarda verso il mare. In fondo alla strada, oltre la ginestra, il fiore d’agave e la schiena umida di quel gozzo che stanno riverniciando, e il sapore del salino confonde, c?è una sabbia rugginosa e ruvida. Non è proprio pulita,ma è fresca e, se prendi a sinistra verso quello che resta del capanno nel quale una volta c’era il bar, subito prima della foce, dove non è mai chiaro se sia il fiume a farsi mare o il mare a voler tornare quello che era, c’è un tronco d?albero vuoto, disseccato come la sabbia su cui riposo. Sì, quello. Ogni colta che lo vedo mi chiedo chi o cosa lo abbiano portato lì. Siedi e aspetta. Aspetta che le stelle e le luci del prato si contendano lo stesso blu di confine tra la notte e il mare.
Quello che senti non è il libeccio, né il suono della risacca.

O bella mia, o bella ciao, io sono via
con un pensiero di te immenso, e un nuovo senso di me…

Ne ho fatte tante. Mi avresti dovuto vedere: Ho provato a tingere i miei giorni di spighe di grano.
C’era un cavaliere giallo che rubò un cavallo alle scogliere ed un cristallo alle miniere di un metrò.
Sulle ciminiere disegnò un castello di corallo
e al ballo tutto il quartiere andò

Ho studiato le vernici dei tramonti, per accendere le sere e dar fuoco al cuore.
C’era un cavaliere rosso che salì sul dosso di bufere
sopra il fosso delle sere di città,
dietro un cielo mosso di ringhiere
dentro il mare grosso di un braciere di immensità.

Ho guardato così tante notti per trovarmi al largo dell’universo e buttar giù un segreto nel più profondo dei mondi marini.

C’era un cavaliere blu che catturò la gioventù di primavere
che portò chimere in schiavitù,
liberò le gru dalle lamiere di un cantiere
verso un campo di preghiere laggiù…

Guardo il tempo dal retrovisore di un?auto in corsa, cercando di capire a cosa corrispondano le pennellate bianche della mezzeria, che scivolano come acqua di fiume alle mie spalle. Se vado veloce,sembrano fondersi in una striscia unica, ma quando rallento l’asfalto torna a spezzarle, e riesco quasi ad aver percezione di ciascuna di loro, ad identificarle, qualche volta anche a chiamarle per nome.
Io sono ancora in viaggio (le favole delle storie qualsiasi non finiscono mai).
Non sono ancora giunto.

Dove arriverai anche tu
camminando le vie dei colori…

Intanto ti mando qualche parola, un po’ di mie notizie e delle fotografie.
Così, almeno, quando le guarderai, io sarò lì con te.”

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